Lo stupro di gruppo a Palermo
e il possibile riscatto dell’umano
Alla città di Palermo, di fronte a certe emergenze umane e sociali, si impone una presa di posizione, anziché una reazione passiva segnata dal senso di impotenza e di fallimento. Lo esige l’eredità morale, civica e spirituale lasciataci da Padre Pino Puglisi. Il “modello 3P” ci sprona a non subire il fallimento sociale che certe realtà ci sbattono in faccia, ma piuttosto ad interrogarci su un possibile riscatto. Il primo passo è chiederci che cosa avrebbe fatto, quel maestro di umanità, per arginare il male, per curare la sofferenza, per risanare il degrado che ancora attraversa la città che lo ha visto artefice di una straordinaria impresa educativa.
Ogni giorno apprendiamo qualche fatto di cronaca che ci sconcerta, ma leggere di uno stupro di gruppo in pieno centro a Palermo, compiuto da sette ragazzi, ci lascia turbati e piegati sotto una sferzata di vergogna. Il caso dei sette giovani che a luglio hanno violentato una loro coetanea, fa riemergere la gravità dell’emergenza socio-educativa del territorio. Non si tratta tanto di povertà economica di alcuni strati sociali, tant’è che il fenomeno, come sappiamo, vede anche casi di rampolli altolocati; si tratta invece della peggiore miseria, quella spirituale, umana, coscienziale. Questi balordi dalla vita senza senso non escono fuori da caverne primitive, sono piuttosto “figli di famiglia”, studenti iscritti in una qualche scuola o forse lavoratori precoci e, probabilmente, anche battezzati in una qualche parrocchia. Hanno messo in atto la loro intelligenza pianificatrice, hanno organizzato le loro “competenze social”, hanno sfidato l’impunità somministrando alla giovane vittima alcool e droga perché non ricordasse i fatti. Come sono precipitati in questo stadio di inumanità?
L’opinione pubblica pretende giustizia per la grave violenza e questa fa già il suo corso. Le istituzioni si sono affrettate a dichiararsi parte civile in sede processuale. Ma in realtà questa miserrima vicenda pone tutti sotto processo. Se è vero, come afferma papa Francesco, che ci vuole un intero villaggio per educare, è altrettanto vero il contrario: l’intera comunità civile è responsabile di tale fallimento, in ordine proporzionale ai ruoli istituzionali. Certamente il primo fallimento è all’interno delle famiglie. Possibile che questi giovani degenerati siano stati nutriti solo nel corpo, senza che né padri, né madri, né altre figure genitoriali abbiano instillato gocce di sensibilità umana? Possibile che a scuola non abbiano incontrato un “maestro”, una “maestra” in grado di suscitare un minimo sentimento di empatia, magari attraverso la lettura di un verso di poesia o lo sguardo meravigliato di fronte a un dipinto? E se invece della scuola hanno praticato la strada, possibile che tra gli angoli dei quartieri, tra i negozianti, i passanti, non abbiano sperimentato se non l’arroganza del più forte, il bullismo contro il debole, la furberia del delinquente? Possibile che nelle loro reti relazionali non abbiano incontrato un modello di virilità autentica, fatta di compassione, presa in carico, solidarietà? Ogni aspetto di questa vicenda inchioda tutti noi all’esito fallimentare dell’intera comunità che ha prodotto questi suoi figli persi. Si, residuo di umanità, ma pur sempre figli.
Il particolare della cronaca che più mi turba è in un frangente del racconto della povera ragazza diciannovenne, che, allo stremo, fissando lo sguardo su uno dei suoi stupratori mentre la filma al culmine dell’aberrante pianificazione, nel tentativo vano di appellarsi a un ipotetico barlume di compassione, chiede tra sé: “perché mi fate questo?”. È la stessa domanda che Simone Weil segnala come indice dell’ingiustizia radicale che l’essere umano compie nei confronti del suo simile: «Ogni qualvolta sorge dal fondo di un cuore umano il lamento infantile che il Cristo stesso non ha potuto trattenere – Perché mi viene fatto del male? – vi è certamente ingiustizia». L’ingiustizia di cui parla la filosofa nel testo La persona e il sacro, non è di carattere giuridico, ma è questione antropologica, relativa cioè allo stadio della relazionalità umana. È precisamente il grado di comprensione del valore della persona umana che orienta la trama del consorzio sociale e che dunque ispira l’azione educativa. E allora domandiamoci che consapevolezza abbiamo, a livello personale e sociale, del valore della persona? Simone Weil si poneva questo interrogativo negli anni in cui l’Europa sprofondava nell’odio della guerra e delle persecuzioni naziste e, da intellettuale, era consapevole che per risalire da quel baratro bisognava rifondare le radici dell’umano, a partire dalle istituzioni: «Occorre infine un sistema di istituzioni tale da portare il più possibile alle funzioni di comando uomini capaci e desiderosi di udirlo e di comprenderlo [il grido di ogni essere che si aspetta che gli venga fatto il bene e non il male]». Dobbiamo oggi riconoscere che non sempre il sistema democratico, tanto auspicato nel periodo delle dittature, garantisce che le “funzioni di comando” siano esercitate da uomini e donne dalla profonda qualità umana, di elevato livello coscienziale, quello per cui si sa discernere il bene nettamente, senza compromessi, senza ipocrisie, e, di conseguenza, si praticano scelte politiche buone e giuste.
Nell’attesa dell’avvento di tale utopia politica, realisticamente ciascuno di noi assuma la propria quota di responsabilità relativa al processo di umanizzazione che passa attraverso relazioni buone che escludano tutto ciò che è fonte di male, di sofferenza per ogni singola persona. Si tratta di sentire interpellata la propria coscienza di fronte ad ogni essere umano; è questa la facoltà che ci consente l’attenzione empatica, una “qualità rara” che si attinge dalla profondità della propria persona, là dove si impara a “sentire” la persona altrui, a percepire che «la persona è qualcosa nell’afflizione, che ha freddo, che anela a un riparo e a un po' di calore» per usare le parole di Simone Weil. Dunque, che la giustizia faccia il suo corso e si puniscano severamente i violentatori, ma di fronte ad un evento di tale degrado, la responsabilità è anche di ciascuno di noi, non collettiva, si badi, perché, si sa, quado tutti sono colpevoli, nessuno si sente tale, come nel branco degli stupratori.
La responsabilità non è questione di diritto, ma di coscienza e questa connota la modalità relazionale che consente di percepire l’umano che è nell’altro e nell’altra. La capacità di sentire chi urla “perché mi stai facendo del male?” riguarda i percorsi di sensibilità coscienziale che compiono i singoli individui e l’intera comunità sociale nelle sue complesse connessioni interumane, declinate nelle diverse forme implicite ed esplicite dei codici comunicativi attraverso i quali trasmettiamo i modelli comportamentali. Cardini per educare in tale direzione sono l’irriducibilità della persona ad oggetto, l’attenzione al bisogno del “prossimo”, l’onestà nel pensare e nell’agire e, non ultima, la gentilezza nei modi e nel linguaggio. Evidentemente il deficit su tutti questi fronti riguarda la sempre più esigua misura di bene che attraversa la coscienza del singolo, in questo nostro tempo nel quale dall’individualismo, concentrazione egoistica, si è passati al soggettivismo, tendenza a ridurre l’altro a mezzo per scopi egoistici, fino alla lacerazione del tessuto relazionale e allora si consumano gli stupri, i femminicidi, la pedofilia e quanto altro del repertorio inumano; ma questo è anche il tempo della regressione relazionale dei sistemi complessi, come quelli internazionali. Ed ecco la guerra, il culmine dell’odio interumano dove la persona perde ogni valore, fino a ritenere merito morale l’uccisione del nemico, che altro non è che il simile cosificato dall’odio. Qualcuno potrebbe pensare che qui i temi si stiano confondendo con impervie connessioni di fatti e di considerazioni. La lezione di papa Francesco sull’ecologia integrale, che ci ricorda che tutto è connesso e in relazione, ci mette in guardia dalle letture semplificate che ci solleverebbero dal sentirci chiamati in causa rispetto a questioni con le quali, apparentemente, non abbiamo nulla a che vedere.
In questi tempi tristi di riduzione dell’umano, dobbiamo avere il coraggio di ritornare alla responsabilità coscienziale per trovare una qualche via di risoluzione rispetto al disumano che avanza. Torno a citare Simone Weil: «In tutti gli strazianti problemi dell’esistenza umana, la sola scelta possibile è tra il bene soprannaturale e il male». Tra la babele di parole e di idee che fanno apparire la realtà sempre più deformata, dove si perdono i confini di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, fino a smarrire il valore dell’identità confuso con l’identitario gerarchico, fino a perdere la visione dell’ordine e dell’equilibrio dietro a suggestivi nuovi codici comportamentali, ecco che le prime a smarrirsi sono le giovani generazioni. Qualche tempo fa, penso alla mia generazione che dibatteva su “Avere o essere”, il sistema socio-culturale stimolava i ragazzi e le ragazze a guardarsi dentro, a coltivare il proprio essere anziché puntare sulle prestazioni del fare, a praticare relazioni solidali ed empatiche. Ora spingiamo ragazze e ragazzi a concentrarsi sul loro individualismo, indicando modelli di rampantismo selettivo, spronandoli al successo produttivo, trascurando il disagio delle loro solitudini, disattendendo al loro bisogno di bene affettivo, morale, spirituale e piuttosto li catapultiamo verso scenari di incertezza e di guerra. Nessuno sa più come parlare ai giovani, ma grande è l’attesa per le loro prestazioni e così li sottoponiamo ad un continuo esame, a una prova dopo l’altra, in una sfida crescente con l’altro, l’altra, a partire dalla sfida con sé stessi. Quanti si perdono per strada? Nessuno lo sa, a parte qualche ignorata statistica. Poi, di tanto in tanto riemergono quando scopriamo che sono finiti nelle maglie della criminalità, della droga, dell’emarginazione e della violenza di tutti i tipi. Chi può dirsi esente dalla responsabilità di tale deriva socio-culturale? La politica trovi seriamente il modo di riparare la colpa di gravissime inadempienze nei confronti delle giovani generazioni; la scuola rimedi alla responsabilità del riduzionismo della cultura a cumulo di competenze da spendere per il profitto, piuttosto che via per elevare la conoscenza a nutrimento per l’anima; la chiesa faccia tesoro della santità di Padre Puglisi: riscopra l’impegno primario per il quale è stata costituita, quello di annunciare la vita buona, apra finalmente le porte ai bambini e alle bambine, ai ragazzi e alle ragazze, non tanto per l’ansia di catechizzare, ma per offrire testimonianza credibile di relazione interpersonale arricchente, a partire dalla differenza di genere, come faceva Padre Puglisi che favoriva in modo magistrale l’esperienza della ricchezza umana che deriva dall’essere maschio e femmina, chiamati entrambi, con una pari dignità originaria, a cooperare, ad amarsi, ad esprimersi nella reciprocità creativa, radicati nelle dimensione soprannaturale, quella che fa scoprire la persona sacra non per decreto, ma per esperienza di amore. Forse allora, quando la rete di interconnessioni umane sarà alimentata da una dose adeguata di energia spirituale, e non solo da spinte meccanico-materialiste, allora potremo sperare che prevalga, sul vuoto coscienziale, il senso dell’umano che porta a riconoscere ogni persona inviolabile nella sua unicità e sacralità.
Stefania Macaluso
Responsabile dell’Ufficio Pastorale per la scuola
Arcidiocesi di Palermo